Questo post è inteso come provocazione, ma anche come momento di pausa e riflessione relativo ai miei post sulla scrittura. Perché imparare a scrivere bene, oltre che, ovviamente, saper comunicare tra familiari e colleghi, con gli amici e i conoscenti, in maniera corretta?

Ricevo da più parti l’esortazione a raccogliere le memorie di vite altrui, i cui detentori o detentrici sono assolutamente certi o certe che meritino di essere riversate in biografie, tanto, a loro parere, sono tribolate e avvincenti. Ebbene, mi dispiace deludere queste persone, ma le vite sono appassionanti solo per chi le vive. Questa è la cruda realtà. Siamo tutti soli con il nostro fardello e, per quanto sia meritevole di rispetto e attenzione, dobbiamo farvi i conti da noi stessi. Per quello le autobiografie sono un genere rischiosissimo, a meno di non trasfigurarle in modo tale che non si capisca chi ne sia il protagonista o che, meglio ancora, questi si elevi ad un “tipo universale”.

Inoltre, se un’altra persona scriverà al tuo posto, sarà inutile per te e non servirà alla persona che scrive, perché non è la sua vita, e non sono esperienze vissute sulla sua pelle. Questo è quanto. Da qui l’importanza di scrivere, e farlo in prima persona, come forma di terapia. Non importa se magari non scriveremo il capolavoro del secolo, o ci esprimeremo in maniera insoddisfacente rispetto alle nostre ambizioni, ma mettere nero su bianco esperienze dolorose significa imparare ad esorcizzarle, a gettare un medicamento lenitivo su una ferita molto spesso ancora aperta, e che fa male. Se poi vogliamo imparare a scrivere bene, e a costruire una bella storia, tanto meglio; anche se non è essenziale per il compito di guarigione che ci siamo prefissi.

“A Girl Writing” di Henriette Browne (1870), Victoria and Albert Museum, Londra

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