Cambiavalute con la moglie
  
(detto anche L’usuraio con la moglie)
di Quentin Massys (1514) – Musée del Louvre di Parigi
Nella pagine dei romanzi dei secoli scorsi, specie in quelli del 1800, ci si imbatte molto spesso in un personaggio singolare, solitamente di sesso maschile, dai lineamenti allungati, dal naso prominente, dagli occhi scintillanti, e dalla magra corporatura. Quest’uomo è afflitto da uno dei classici sette peccati capitali, e questo vizio sembra asciugargli la fisionomia e svuotargli la massa grassa a tutto vantaggio della massa magra. Non ha una corporatura debole, semmai è vero il contrario: è una persona così tesa al suo obiettivo che persino la sua muscolatura d’acciaio sembra allenata e posta al servizio del suo passatempo preferito. Qualche volta la sua schiena risulta ingobbita, e la sua persona ritratta su se stessa; e dalla posa assunta è evidente tutta la sua chiusura verso il mondo e la sua diffidenza verso i contatti sociali.
È la figura dell’avaro. In letteratura l’avaro in senso classico ha un rapporto quasi carnale con il denaro, inteso come monete e banconote o comunque bene tangibile: lo mette al sicuro in una cassaforte o in un luogo segreto, per andare a rimirarlo, accarezzarlo, coccolarlo e soprattutto contarlo affinché non manchi niente. Si tratta di un rapporto sia tattile che visivo, e la montagna di soldi, o di gioielli, che aumenta contribuisce al suo buonumore, e lo porta a ideare sempre nuovi sistemi per accrescerla; spesso a tutto svantaggio del prossimo.
Nello stesso tempo, l’estrema fragilità dei suoi averi, che potrebbero essergli sottratti dal primo ladro di passaggio, lo gettano in uno stato di angoscia perenne, perché con il pensiero va sempre al suo tesoro nascosto, e non ha pace né di giorno né di notte. Questa sua ossessione riguarda anche il possesso di case e terreni, che potrebbero essere invasi da abusivi, o venirgli sottratti anche per vie legali. Di frequente, poi, l’avaro coincide con la professione dell’usuraio, in una giustapposizione che porta a pericolose derive religiose e razziali. È noto a tutti, infatti, che nei secoli scorsi era proibito per legge ai cristiani concedere prestiti a interesse, e quindi si concedeva solamente agli ebrei di esercitare questa professione, che secondo i dettami religiosi e morali del cattolicesimo portava al peccato mortale e alla dannazione dell’anima.
Questa figura sta scomparendo dai nostri orizzonti letterari per un motivo molto semplice: siamo in una società dominata dal consumo  –  e dal suo parente più stretto, lo spreco – nonostante la crisi e perlomeno a livello europeo e americano. Fino al XIX secolo, larghi strati sociali erano poveri, quando non erano davvero miserabili, e molti vivevano cercando di non morire di fame, o sopravvivevano grazie a enti caritatevoli o istituzioni statali che garantivano una mera sussistenza. Si attribuiva quindi molta importanza ai lasciti ereditari, accapigliandosi nei tribunali e portando avanti faide familiari infinite, che si trascinavano per generazioni.
Michael Douglas interpreta Gordon Gekko
nel film del 1987 diretto da Oliver Stone.
L’avaro, però, non è morto. Semmai, l’avarizia è stata sostituita da un’altra pulsione strettamente imparentata con lei: l’avidità. Ed ecco che l’avaro ha mutato pelle ed è diventato l’avido. Ha trasformato anche il modo di copulare con l’oggetto del suo amore. Il denaro e le banconote si sono trasformati nelle schermate di computer che riportano i guadagni dalle speculazioni in Borsa, e nella finanza selvaggia che ha affossato l’economia di tutto il mondo, portando come regali aggiuntivi il cappio micidiale del consumo a credito e dell’indebitamento.

Manca completamente, ora, il rapporto tattile con il bene, ma del resto non si può avere tutto, e la soddisfazione con cui si riesce ad aumentare di parecchi zeri il proprio conto in banca in uno dei tanti paradisi fiscali, con un semplice click di trasferimento, è impagabile. Del resto, come dice Gordon Gekko in Wall Street: “L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha impostato lo slancio in avanti di tutta l’umanità.” Avaro o avido che sia un essere umano, la mancanza di generosità equivale spesso anche all’aridità affettiva, e nella nostra società alzi la mano chi non sia stato avaro o avido almeno una volta nella vita.

Tornando alla nostra figura di avaro letterario, vi propongo una carrellata di figure che bene o male tutti conosciamo, accompagnate da un inizio della storia e una citazione. So che il capostipite è L’avaro di Molière. Non che non mi fidi di Molière (sarebbe il colmo!). tuttavia presento nel blog solamente testi che ho letto oppure ho visto rappresentati se si tratta di pezzi teatrali, in quanto posso aggiungere qualche nota personale (e Molière purtroppo non è tra questi).

Ecco a voi gli avari più celebri della storia:

Canto di Natale di Charles Dickens (1843): Ebenezer Scrooge

Locandina del film del 2009,
diretto da Robert Zemeckis

Il protagonista di questo romanzo breve di Charles Dickens è un vecchio ricco, avaro ed egoista. L’azione si apre nella Londra del 1843, durante il periodo di Natale. Scrooge è talmente infastidito dalle festività da costringere il suo unico impiegato Bob Cratchit, vessato e sottopagato, a venire a lavorare nel giorno della vigilia, mugugnando in quanto la chiusura dell’ufficio gli fa interrompere lavoro e guadagni. Tratta male anche il suo unico nipote, che viene a trovarlo per invitarlo alla cena. La sera della vigilia, però, sono destinati ad accadere fatti davvero straordinari, a cominciare dalla visione della faccia del suo defunto socio in affari, Jacob Marley, che Scrooge vede materializzarsi al posto del batacchio della porta… 

Questa deliziosa, magica storia di fantasmi, di occasioni perdute, di rimorsi e pentimenti godette una tale fortuna che ebbe svariate versioni cinematografiche. Sono stati realizzati un film con la computer graphic, e addirittura una versione intitolata Festa in casa Muppet, con i celebri pupazzi parlanti.

La citazione:
Caldo e freddo non facevano effetto sulla persona di Scrooge. L’estate non gli dava calore, il rigido inverno non lo assiderava. Non c’era vento più aspro di lui, non c’era neve che cadesse più fitta, non c’era pioggia più inesorabile. Il cattivo tempo non sapeva da che parte pigliarlo. L’acquazzone, la neve, la grandine, il nevischio, per un sol verso si potevano vantare di essere da più di lui: più di una volta si spargevano con larghezza: Scrooge no, mai. Nessuno lo fermava mai per via per dirgli con cera allegra: “Come si va, caro il mio Scrooge? a quando una vostra visita?” 

Eugénie Grandet di Honoré de Balzac (1833): papà Grandet

Copertina di una delle molte edizioni
del romanzo.

La storia è ambientata a Saumur, piccolo paese della campagna francese. Il padre di Eugénie è un vecchio vignaiolo arricchito grazie all’eredità paterna, fatta fruttare tramite giusti investimenti finanziari, un fiuto infallibile per gli affari, e la sua proverbiale avarizia oltre che all’attaccamento all’oro che “sembrava aver comunicato il suo colore al suo viso ”. Nonostante la sua ricchezza, sua moglie, sua figlia Eugénie e la serva Nanon sono costrette a vivere in una casa spoglia e povera. Ma tutto cambia con l’arrivo di un elegante e raffinato giovane parigino: Charles, cugino di Eugénie…

Eugénie Grandet è una delle figure femminili più commoventi della letteratura, per la sua dolcezza e bontà d’animo, ma fin da subito il lettore intuisce che il suo destino sarà segnato. Nel triste e ristretto ambiente che la circonda, in cui cerca disperatamente affetto, l’arrivo del cugino si traduce in una speranza che verrà ben presto delusa. Nella sua immensa produzione letteraria, del resto, Balzac non dimostra molta fiducia nella natura umana.

Questo fortunato romanzo ridiede vigore al giovane Balzac dai successi altalenanti, gli assicurò popolarità e una certa stabilità finanziaria, permettendogli di consolidare la sua fama di scrittore.

La citazione:
Da quindici anni madre e figlia consumavano lí la loro vita in un lavoro continuo dall’aprile al novembre; nel primo giorno di questo mese potevano portare il loro quartiere d’inverno presso il caminetto. Quel giorno soltanto Grandet permetteva che si cominciasse ad accendere il fuoco nella stanza, e lo faceva spegnere il trentuno marzo senza tener conto dei primi freddi della primavera, né di quelli dell’autunno; uno scaldapiedi pieno di brace prese in cucina e serbate con destrezza dalla grossa Nannina aiutava le due donne a passare con minor disagio le mattinate e le sere piú fresche dell’aprile e dell’ottobre. Esse avevano cura di tutta la biancheria di casa, e compivano con tanta scrupolosità questo lavoro da operaie, che, se Eugenia voleva ricamare qualche collaretto per la madre, bisognava che rubasse un paio d’ore al sonno, ingannando il padre per avere un po’ di luce.

La roba di Giovanni Verga (1883) – don Mazzarò

In questa novella il contadino Mazzarò viene descritto come un uomo basso e con una grossa pancia, “ricco come un maiale” con la testa simile a un brillante per intelligenza. Egli finisce, piano piano, per appropriarsi di tutti i terreni che prima appartenevano a un potente barone, il quale viene costretto a vendere prima i suoi possedimenti e successivamente anche il suo castello. Ma, come dice il proverbio, il tempo è galantuomo e, come avviene per tutti, la morte arriva…

Mazzarò è il prototipo dell’arraffone che pensa solo ad accumulare, e non si rende conto che quando morirà dovrà lasciare alla spalle tutti i suoi beni, di cui godranno gli eredi, senza potersi portare nella tomba nemmeno un soldino. Lo sguardo di Verga non dimostra nessuna simpatia per questo suo personaggio, a differenza di altri miseri protagonisti delle sue novelle e dei suoi romanzi.

Uomo con la zappa di Jean-François Millet (18060-62)

La citazione:
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: – Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! –

Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me! –

Il mercante di Venezia di William Shakespeare (1596-1598): Shylock

Nella Venezia del XVI secolo, Bassanio, giovane gentiluomo veneziano, vorrebbe concorrere ad una competizione a suon di enigmi, la cui vittoria gli assicurerà la mano di Porzia, ricca ereditiera di Belmonte. Sprovvisto di mezzi, chiede perciò al suo carissimo amico Antonio, di professione mercante, 3.000 ducati in prestito. Antonio, pur amando Bassanio, non può prestargli il denaro, poiché lo ha interamente investito nei suoi traffici marittimi. Tuttavia garantirà per lui Shylock, ricco usuraio ebreo, disprezzato dai cristiani. L’usuraio non sopporta Antonio, che presta denaro gratuitamente, facendo abbassare il tasso d’interesse nella città, e che lo umilia pubblicamente con pesanti insulti. La situazione si complica quando ci va di mezzo l’amata figlia di Shylock, Jessica, e Antonio comincerà a subire rovesci di fortuna… 

Shylock, magistralmente interpretato
da Al Pacino nel film del 2004.

In questa tragedia di Shakespeare, ci sono svariate pietre miliari, tra cui lo sfogo di Shylock che cito più sotto. La scena della “libbra di carne” dove Shylock sfodera il coltellaccio per prendere un pezzo di carne di Antonio, che ha mancato di onorare il suo debito, e tutto questo con l’approvazione del tribunale, è uno dei pezzi più celebri di tutto il teatro mondiale. 
La citazione:
Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Non sente anche lui le ferite? Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato dalle medicine, scaldato e gelato anche lui dall’estate e dall’inverno come un cristiano? Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? 
(Shylock: atto III, scena I)

Paperon de’ Paperoni di Carl Banks (Walt Disney): 1947, prima apparizione

Non posso fare a meno di menzionare l’immortale zio Paperone, sia perché ritengo il mondo dei cartoni animati e dei fumetti degno di stare alla pari con quello letterario, sia perché questo personaggio rappresenta davvero il prototipo dell’avaro e dell’avido, con i tuffi nel suo deposito di monete d’oro, sempre insidiato dalla Banda Bassotti, con i suoi continui piagnistei sulle spese che deve sostenere, con il suo ingegno nel trovare sempre nuovi sistemi per far soldi.

È lo zio di Paperino e il prozio di Qui, Quo e Qua e viene definito il “papero più ricco del mondo” o il “riccastro”. A quanto sembra, è stato proprio ricalcato sulla figura di Ebenezer Scrooge e quindi quale miglior modo per chiudere il post con un riferimento al personaggio che ha aperto questa ideale carrellata di avari?

Il cartone animato Zio Paperone alla ricerca della lampada perduta
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Cari scrittori, e tra i vostri personaggi (o personaggi che interpretate se siete attori), ci sono mai state figure di avari oppure di avidi nel vostro mondo letterario? Siete d’accordo con la mia analisi sula trasformazione dell’avaro ai giorni nostri?