Il quadro che vedete qui sotto s’intitola Government Bureau  ed è un’opera del 1957 dell’artista americano George Tooker.  Esprime molto bene il senso di alienazione e di pessimismo nella visione di Tooker che rappresenta un mondo grigio e spento, freddo e ordinato dove gli impiegati agli sportelli, ridotti ormai a mostruosi occhi, sorvegliano le persone in attesa, mentre queste ultime sembrano riprodursi come cloni con minime varianti Richiama naturalmente anche il clima di Guerra Fredda del periodo.

Ho scelto questo quadro per introdurre il nuovo articolo relativo ai post tematici (che hanno molto in comune con la serie de “i vasi comunicanti”). Stavolta l’argomento del post è il mondo dei cosiddetti impiegati: una categoria molto variegata che contiene in sé diverse figure professionali come quella, ad esempio, delle segretarie e, un tempo, delle dattilografe. Solitamente il lavoro dell’impiegato è associato alla noia se non addirittura alla frustrazione vissuta in mezzo a scartoffie, telefonate, archivio, appuntamenti, moduli e pratiche. E, non da ultimo, su di lui di solito spadroneggia il capo incompetente che, per una strana combinazione del destino, è ancorato ai più alti livelli gerarchici e governa dispoticamente il suo piccolo regno.

La figura dell’impiegato è andata tuttavia trasformandosi, al punto che alcune categorie, un tempo molto diffuse, sono andate scomparendo come la cosiddetta segretaria, rigorosamente donna, che ha assunto la denominazione di “assistente” (all’inizio ho lavorato come segretaria di direzione, poi segretaria editoriale, e quindi ho una certa dimestichezza con l’argomento). Non sembrerebbe dunque avere un particolare appeal letterario, eppure… eppure ci sono moltissimi esempi tra le pagine dei libri di celebri impiegati, film e anche strip comiche esilaranti. 
Vediamo dunque di scoprire gli impiegati che ho incontrato sulla mia strada e che mi hanno, di volta in volta, immalinconito o divertito.

Gli impiegati in letteratura

Bartleby lo scrivano (Bertleby the Scrivener) di Herman Melville


Questo racconto, apparso nel 1853, è una delle storie più celebri sull’epoca moderna, e sul contrasto tra un tranquillo scrivano e le sollecitazioni produttive dell’utilitarismo americano. L’io narrante è un avvocato di Wall Street, nel periodo in cui la strada sta diventando un centro finanziario di notevole importanza. Egli si descrive come “una persona eminentemente cauta e fidata”. Ha tre dipendenti: Turkey (Tacchino) e Nippers (Chele), scrivani, e il fattorino Ginger Nut (Zenzero). Con l’ampliarsi dell’attività, decide di assumere un terzo scrivano. Risponde all’annuncio Bartleby, che si presenta in ufficio come una figura pallida, mite e taciturna.

In principio Bartleby esegue diligentemente il lavoro di copista, ma col tempo si rifiuta di svolgere altri compiti che esulino dal suo, motivando il suo rifiuto con la risposta “preferirei di no” (nell’originale, I would prefer not to).

Ecco un estratto dell’inizio del “gran rifiuto”:

Credo fu il terzo giorno dacché egli era con me, il primo nel quale fosse sorta la necessità di fargli esaminare le sue scritture, che, avendo io premura di sbrigare una faccenda di poco conto che m’impegnava al momento, bruscamente detti la voce a Bartebly. Posta la fretta e la mia naturale attesa d’immediata obbedienza, sedevo col capo chino sul documento originale posto sul mio scrittoio, e la mano destra obliquamente protesa a porgere in modo un po’ nervoso la copia, così che, appena emerso dal suo riparo, Bartleby potesse afferrarla e procedere all’opera senza alcun indugio.


In tale esatta posizione sedevo, quando lo chiamai, spiegando in fretta cosa desiderassi da lui, ovvero che esaminasse con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando senza muoversi dal suo privato, Bartebly con voce singolarmente mite, ma ferma, replicò: “Avrei preferenza di no.”

Più avanti nel racconto egli smette di lavorare del tutto, fornendo come unica spiegazione la medesima frase. E così via per tutta la durata della vicenda.Il principale, combattuto tra la pietà e l’esasperazione, scopre che Bartleby non ha né casa né amici, e vive nello studio. Da dove dunque viene questa figura misteriosa e cadaverica?

Bartelby lo scrivano si potrebbe definire come uno dei primi esempi di letteratura dell’assurdo. Al protagonista che oppone il suo costante rifiuto come un mantra non è stato fatto alcun torto dal principale, non è stato angariato dai colleghi e non gli sono stati chiesti incarichi gravosi. Nel racconto non ci sono fatidiche rivelazioni, trame intricate, colpi di scena, intrighi erotici o episodi di violenza. Bertleby si spegne lentamente sotto i nostri occhi. Eppure ci sono echi in questa figura che appartengono all’impiegato “universale” e che per questo disturbano: un lavoro sempre uguale a se stesso, un ambiente fatto di quattro mura, colleghi antipatici e il tempo che succhia energie fino a ridurti a una larva. Alla fine anche la mente di Bartebly pare svuotarsi di ogni forma di coscienza e aggrapparsi alla frase I would prefer not to significa respingere anche l’intrusione in un’esistenza che rimane misteriosa. Come, del resto, rimane misteriosa ogni creazione letteraria.

La morte in banca di Giuseppe Pontiggia

Nel 1959 lo scrittore Giuseppe Pontiggia (1934-2003) pubblica questo suo primo romanzo, di carattere autobiografico, La morte in banca, frutto d’una profonda insoddisfazione per la sua esperienza lavorativa in un ambiente frustrante. All’età di diciassette anni, infatti, Pontiggia comincia a lavorare al Credito Italiano, dove rimane dal ’51 al ’61. Grazie all’incoraggiamento di Elio Vittorini, che gli consiglia di dedicare più tempo alla narrativa, nel 1961 lascia l’impiego in banca e si dedica all’insegnamento serale.

All’inizio del romanzo si narra l’inserimento del giovane Carabba nell’ambiente bancario. Come acutamente nota Mario Barenghi nella postfazione, il ragazzo viene indicato sempre con il suo cognome, e mai con il nome, il che contribuisce a renderlo anonimo e a marcare la distanza tra il protagonista e lo stesso autore che non prova alcun affetto per questa sua “creatura” letteraria. Sembrerebbe, invece, considerarlo con l’occhio freddo dell’entomologo. All’interno della struttura bancaria, Carabba non ha nemmeno un vera e propria carica. Viceversa, tutti i colleghi del giovane sono indicati con il termine di capufficio, segretario, funzionario ecc. All’inizio egli soffre tutte le difficoltà e gli impacci del nuovo arrivato e rifiuta di identificarsi con un lavoro che considera provvisorio. Egli intende anche conciliare il lavoro con la prosecuzione degli studi.

Ecco a voi uno stralcio del racconto:

Dopo tre settimane Carabba ha imparato a distinguere, nella piccola folla che sale a ogni fermata del tram, gli impiegati di banca. E non solo della sua, ma anche di altre, sono sempre le stesse facce. Esteriormente non presentano segni particolari, per ora si accontenta di questa constatazione. Alcuni hanno il viso assorto e intellettuale, fissano per un attimo con occhio penetrante, poi si voltano altrove, indifferenti.
Carabba rimane perplesso.
Capita però che un collega, nella ressa sulla piattaforma, gliene presenti uno:
“Impiegato di banca anche lei?”
“Anche lei?”
Allora si sorride, anzi si ride, quasi che l’identità della condizione renda superflua ogni ulteriore riserva.
“Anche lei impiegato di banca?”
“Anche lei?”
Si ride.

È chiaro che si tratta di una risata a denti stretti, quasi di scherno: i più vecchi sanno benissimo la fine che farà il più giovane collega. Anche lui, come Bartleby, è destinato a condurre un’esistenza grigia, priva di vivacità intellettuale e di legami affettivi, a impigrirsi, ad accontentarsi, ad adagiarsi…

Aggiungo però che non è l’ambiente, pur determinante, ad avviare il personaggio alla morte cerebrale, quanto piuttosto una sua predisposizione innata. Infatti, com’è ovvio, egli non trascorre tutta la sua giornata nel luogo di lavoro, ma ha molto tempo libero eppure non riesce a sfruttarlo e a trovare stimoli e allacciare amicizie. Pure la prosecuzione degli studi si rivela una routine e, particolare irritante, il giovane attribuisce sempre agli altri la colpa dei suoi insuccessi. Carabba quindi non ha nemmeno la pietas del suo autore, che descrive la sua vita in modo efficace e servendosi una scrittura asciutta e priva di fronzoli. Che triste, triste destino per un personaggio! 



Gli impiegati nei film

Mi piace lavorare (Mobbing) di Francesca Comencini

Si tratta di un film prodotto nel 2003 e diretto da Francesca Comencini, con Nicoletta Braschi e un cast di attori non professionisti.

La trama è semplice: Anna è una giovane donna separata, madre di una bambina di nome Morgana e figlia di un anziano padre malato, a cui spesso va a far visita nella casa di riposo che lo ospita. In ufficio ricopre il ruolo di segretaria capocontabile, lavoro che svolge volentieri. A casa, la bambina si occupa quotidianamente di far la spesa e la sera, le legge Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, mentre lei, sfinita, si addormenta.

L’azienda per cui Anna lavora, per una fusione societaria, è stata assorbita da una multinazionale. Durante una piccola festa aziendale, i nuovi vertici informano i dipendenti sul rinnovato assetto societario, rassicurandoli che questa ristrutturazione non comporterà mutamenti per i loro posti di lavoro. Anna, e i colleghi festeggiano brindando, mangiando e ballando. Il clima sembra rilassato anche se si percepisce nell’aria una nota d’insicurezza.

Il nuovo assetto societario porterà, di lì a poco, inattesi cambiamenti nella sua vita lavorativa e di conseguenza anche in quella familiare. Anna viene rimossa dal suo ruolo. Di lì comincia la sua tragica discesa in una serie di mansioni assurde e sempre più umilianti nel tentativo di farla dimettere. Viene abbandonata dalla falsa amicizia delle colleghe e dei colleghi, che sembrano evitarla e comportarsi come un branco che abbandona l’animale malato. …

Il film affronta il tema del mobbing presente a vario livello in tutti gli ambienti di lavoro, e che può derivare non solamente dai vertici ma anche dai colleghi. Questo è il genere di mobbing  più terribile e doloroso da sopportare, che sottopone la protagonista a un vero e proprio calvario dove si trova disperatamente sola.

Non amo particolarmente Nicoletta Braschi e trovo che sia un’attrice sopravvalutata. Qui però è convincente e brava in un ruolo che sembra calzarle a pennello e calata in un ambiente ostile con cui spesso gli impiegati si trovano a fare i conti.


La segretaria quasi privata di Walter Lang

Siccome mi sembra che ci siamo depressi più che a sufficienza con gli esempi di cui sopra, cambiamo decisamente registro con questa commedia brillante del 1957 interpretata dall’inossidabile coppia Katharine Hepburn e Spencer Tracy. Il film è arguto e frizzante, e propone lo spaccato sociale di un ambiente lavorativo di alto livello degli anni cinquanta. Ho scoperto che il soggetto è tratto dal lavoro teatrale The Desk Set di William Marchant.

Bunny Watson (Katherine Hepburn), capoufficio del reparto quesiti di una grossa azienda, è una donna molto intelligente, emancipata e battagliera ma il suo posto sta per essere insidiato da una nuova macchina elettronica EMERAC che probabilmente si occuperà di risolvere più velocemente il lavoro di lei e delle sue colleghe, con le quali ha un ottimo rapporto di amicizia. 

L’ingegnere Richard Sunner (Spencer Tracy), ideatore del calcolatore elettronico, in realtà è stato incaricato di inserire il macchinario nell’azienda per agevolare il lavoro del personale, non per soppiantarlo. Si verificano quindi una serie di equivoci e di schermaglie verbali che vedono anche la partecipazione del fidanzato di Bunny. Com’è ovvio il lieto fine è assicurato con la creazione di nuovi legami sentimentali e nuove coppie…

Oggi le preoccupazioni della protagonista rispetto all’avvento della tecnologia possono far sorridere, dato che è ormai diventata un fatto ineluttabile, di volta in volta da noi amata e odiata a dismisura. L’EMERAC è infatti uno dei primi esempi di computer presenti all’interno di una commedia, e nel film è come se fosse inserito nel cast. Comunque è  mio credo personale che ogni tanto bisognerebbe vedere questi film ottimisti, ma dai dialoghi mordaci e intelligenti, freschi come acqua sorgiva, in cui la cinematografia americana era all’epoca maestra.
Gli impiegati nei fumetti


Bristow

Passo qui a presentare Bristowuna striscia a fumetti del cartoonist britannico Frank Dickens, che ha per protagonista l’omonimo impiegato dell’Ufficio Acquisti di una multinazionale. Dal 1962 e fino al 2001 la striscia è apparsa sul quotidiano Evening Standard.

Il fumetto segue la vita quotidiana di un impiegato della Chester-Perry Co.Ltd, rappresentata da un immenso, monolitico edificio. Bristow ama fantasticare ed ha manie di grandezza in cui si vede come un neurochirurgo e uno scrittore. Il suo tomo epico, Living Death in the Buying Department (Morte Vivente nell’Ufficio Acquisti), deve ancora trovare un editore, ma ciò non lo scoraggia… questa situazione vi ricorda qualcosa? 😉 Vive in una piccola camera a East Winchley e fa il pendolare in treno, arrivando invariabilmente in ritardo. Molto spesso subisce le angherie del suo prepotente capo Fudge. Ha una cotta per una abituale visitatrice, Miss Pretty della Kleenaphone, la ditta di manutenzione dei telefoni. Un altro visitatore regolare è il piccione che si ferma sul davanzale della finestra: durante l’inverno, l’uccello migra verso climi più caldi, dove visita la controparte di Bristow: un nero in abito bianco. 

Bristow è il prototipo dell’impiegato che fa il minimo indispensabile e nonostante questo risulta simpatico, con i suoi baffetti disegnati come peli ben distanziati e il suo testone calvo. Inoltre i suoi sogni a occhi aperti sulla ricerca di un editore non possono che suscitare la nostra comprensione!


Dilbert

Chiudiamo con l’adorabile impiegato americano Dilbert, protagonista di una striscia a fumetti comica giornaliera creata da Scott Adams. Personalmente lo avevo incontrato quando era iniziata la consuetudine di distribuire i giornalini gratuiti in metropolitana. Una delle pagine di Metro era riservata ai cruciverba, ai giochi di parole e all’intrattenimento e c’era spesso la striscia di Dilbert alternata con altre come Calvin&Hobbes, di cui ho parlato nel post dedicato alla tigre.

Si tratta di un personaggio che l’autore aveva abbozzato anni durante le sue noiosissime riunioni di lavoro. Durante le mie ricerche per la creazione del post, sollecitata da un commento di Tom del blog The Obsidian Mirror, ho scoperto che Scott Adams ha lavorato nove anni per l’azienda telefonica americana Pacific Bell, e aveva deciso di sfruttare quest’esperienza per descrivere l’ambiente lavorativo paradossale eppure autentico in cui il suo personaggio si muove. Addirittura ha scritto anche un libro, intitolato Il principio di Dilbert!

Il Dilbert dei fumetti indossa pantaloni neri, camicia bianca ed una cravatta a righe sempre storta. Porta occhiali che nascondono il suo sguardo. Lavora in un cubicle come quelli del quadro di George Tooker, a una scrivania circondata da quattro pareti ad altezza busto che contraddistingue gli uffici statunitensi e anglosassoni (ne sono testimone!).  Vive in compagnia del suo cane Dogbert con cui ama chiacchierare.

Sul luogo di lavoro Dilbert è un ingegnere elettronico frustrato, nel senso che, a differenza di Bristow, è sempre puntuale e presente in ufficio ed è sempre onestamente intenzionato a svolgere al meglio il proprio lavoro. Tuttavia molti fattori gli remano contro, a cominciare dagli ingranaggi del “marketing” e della “leadership” per passare ai colleghi ottusi. Ogni buona idea viene soppressa e ogni merito non riconosciuto.

Molti di noi possono facilmente riconoscersi in questo personaggio e soprattutto nelle dinamiche aziendali di cui siamo vittime. Per cui… ecco il link al sito ufficiale di Dilbert. Buon divertimento!

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Spero che il post vi sia piaciuto e che mi racconterete in quale di queste esperienze vi riconoscete maggiormente. Io ero una specie di Dilbert editoriale con qualche sfumatura alla Bristow nei sogni a occhi aperti!

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Fonti:


Bartebly lo scrivano di Herman Melville – Traduzione e cura di Gianni Celati – Economica Feltrinelli

La morte in banca di Giuseppe Pontiggia – Oscar Mondadori
Wikipedia per le trame dei libri e dei film, fortemente adattate e integrate