Ho scelto questo quadro per introdurre il nuovo articolo relativo ai post tematici (che hanno molto in comune con la serie de “i vasi comunicanti”). Stavolta l’argomento del post è il mondo dei cosiddetti impiegati: una categoria molto variegata che contiene in sé diverse figure professionali come quella, ad esempio, delle segretarie e, un tempo, delle dattilografe. Solitamente il lavoro dell’impiegato è associato alla noia se non addirittura alla frustrazione vissuta in mezzo a scartoffie, telefonate, archivio, appuntamenti, moduli e pratiche. E, non da ultimo, su di lui di solito spadroneggia il capo incompetente che, per una strana combinazione del destino, è ancorato ai più alti livelli gerarchici e governa dispoticamente il suo piccolo regno.
Questo racconto, apparso nel 1853, è una delle storie più celebri sull’epoca moderna, e sul contrasto tra un tranquillo scrivano e le sollecitazioni produttive dell’utilitarismo americano. L’io narrante è un avvocato di Wall Street, nel periodo in cui la strada sta diventando un centro finanziario di notevole importanza. Egli si descrive come “una persona eminentemente cauta e fidata”. Ha tre dipendenti: Turkey (Tacchino) e Nippers (Chele), scrivani, e il fattorino Ginger Nut (Zenzero). Con l’ampliarsi dell’attività, decide di assumere un terzo scrivano. Risponde all’annuncio Bartleby, che si presenta in ufficio come una figura pallida, mite e taciturna.
In principio Bartleby esegue diligentemente il lavoro di copista, ma col tempo si rifiuta di svolgere altri compiti che esulino dal suo, motivando il suo rifiuto con la risposta “preferirei di no” (nell’originale, I would prefer not to).
Ecco un estratto dell’inizio del “gran rifiuto”:
Credo fu il terzo giorno dacché egli era con me, il primo nel quale fosse sorta la necessità di fargli esaminare le sue scritture, che, avendo io premura di sbrigare una faccenda di poco conto che m’impegnava al momento, bruscamente detti la voce a Bartebly. Posta la fretta e la mia naturale attesa d’immediata obbedienza, sedevo col capo chino sul documento originale posto sul mio scrittoio, e la mano destra obliquamente protesa a porgere in modo un po’ nervoso la copia, così che, appena emerso dal suo riparo, Bartleby potesse afferrarla e procedere all’opera senza alcun indugio.
In tale esatta posizione sedevo, quando lo chiamai, spiegando in fretta cosa desiderassi da lui, ovvero che esaminasse con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando senza muoversi dal suo privato, Bartebly con voce singolarmente mite, ma ferma, replicò: “Avrei preferenza di no.”
Più avanti nel racconto egli smette di lavorare del tutto, fornendo come unica spiegazione la medesima frase. E così via per tutta la durata della vicenda.Il principale, combattuto tra la pietà e l’esasperazione, scopre che Bartleby non ha né casa né amici, e vive nello studio. Da dove dunque viene questa figura misteriosa e cadaverica?
Bartelby lo scrivano si potrebbe definire come uno dei primi esempi di letteratura dell’assurdo. Al protagonista che oppone il suo costante rifiuto come un mantra non è stato fatto alcun torto dal principale, non è stato angariato dai colleghi e non gli sono stati chiesti incarichi gravosi. Nel racconto non ci sono fatidiche rivelazioni, trame intricate, colpi di scena, intrighi erotici o episodi di violenza. Bertleby si spegne lentamente sotto i nostri occhi. Eppure ci sono echi in questa figura che appartengono all’impiegato “universale” e che per questo disturbano: un lavoro sempre uguale a se stesso, un ambiente fatto di quattro mura, colleghi antipatici e il tempo che succhia energie fino a ridurti a una larva. Alla fine anche la mente di Bartebly pare svuotarsi di ogni forma di coscienza e aggrapparsi alla frase I would prefer not to significa respingere anche l’intrusione in un’esistenza che rimane misteriosa. Come, del resto, rimane misteriosa ogni creazione letteraria.
Nel 1959 lo scrittore Giuseppe Pontiggia (1934-2003) pubblica questo suo primo romanzo, di carattere autobiografico, La morte in banca, frutto d’una profonda insoddisfazione per la sua esperienza lavorativa in un ambiente frustrante. All’età di diciassette anni, infatti, Pontiggia comincia a lavorare al Credito Italiano, dove rimane dal ’51 al ’61. Grazie all’incoraggiamento di Elio Vittorini, che gli consiglia di dedicare più tempo alla narrativa, nel 1961 lascia l’impiego in banca e si dedica all’insegnamento serale.
All’inizio del romanzo si narra l’inserimento del giovane Carabba nell’ambiente bancario. Come acutamente nota Mario Barenghi nella postfazione, il ragazzo viene indicato sempre con il suo cognome, e mai con il nome, il che contribuisce a renderlo anonimo e a marcare la distanza tra il protagonista e lo stesso autore che non prova alcun affetto per questa sua “creatura” letteraria. Sembrerebbe, invece, considerarlo con l’occhio freddo dell’entomologo. All’interno della struttura bancaria, Carabba non ha nemmeno un vera e propria carica. Viceversa, tutti i colleghi del giovane sono indicati con il termine di capufficio, segretario, funzionario ecc. All’inizio egli soffre tutte le difficoltà e gli impacci del nuovo arrivato e rifiuta di identificarsi con un lavoro che considera provvisorio. Egli intende anche conciliare il lavoro con la prosecuzione degli studi.
Ecco a voi uno stralcio del racconto:
Dopo tre settimane Carabba ha imparato a distinguere, nella piccola folla che sale a ogni fermata del tram, gli impiegati di banca. E non solo della sua, ma anche di altre, sono sempre le stesse facce. Esteriormente non presentano segni particolari, per ora si accontenta di questa constatazione. Alcuni hanno il viso assorto e intellettuale, fissano per un attimo con occhio penetrante, poi si voltano altrove, indifferenti.
Carabba rimane perplesso.
Capita però che un collega, nella ressa sulla piattaforma, gliene presenti uno:
“Impiegato di banca anche lei?”
“Anche lei?”
Allora si sorride, anzi si ride, quasi che l’identità della condizione renda superflua ogni ulteriore riserva.
“Anche lei impiegato di banca?”
“Anche lei?”
Si ride.
È chiaro che si tratta di una risata a denti stretti, quasi di scherno: i più vecchi sanno benissimo la fine che farà il più giovane collega. Anche lui, come Bartleby, è destinato a condurre un’esistenza grigia, priva di vivacità intellettuale e di legami affettivi, a impigrirsi, ad accontentarsi, ad adagiarsi…
Aggiungo però che non è l’ambiente, pur determinante, ad avviare il personaggio alla morte cerebrale, quanto piuttosto una sua predisposizione innata. Infatti, com’è ovvio, egli non trascorre tutta la sua giornata nel luogo di lavoro, ma ha molto tempo libero eppure non riesce a sfruttarlo e a trovare stimoli e allacciare amicizie. Pure la prosecuzione degli studi si rivela una routine e, particolare irritante, il giovane attribuisce sempre agli altri la colpa dei suoi insuccessi. Carabba quindi non ha nemmeno la pietas del suo autore, che descrive la sua vita in modo efficace e servendosi una scrittura asciutta e priva di fronzoli. Che triste, triste destino per un personaggio!
Si tratta di un film prodotto nel 2003 e diretto da Francesca Comencini, con Nicoletta Braschi e un cast di attori non professionisti.
La trama è semplice: Anna è una giovane donna separata, madre di una bambina di nome Morgana e figlia di un anziano padre malato, a cui spesso va a far visita nella casa di riposo che lo ospita. In ufficio ricopre il ruolo di segretaria capocontabile, lavoro che svolge volentieri. A casa, la bambina si occupa quotidianamente di far la spesa e la sera, le legge Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, mentre lei, sfinita, si addormenta.
L’azienda per cui Anna lavora, per una fusione societaria, è stata assorbita da una multinazionale. Durante una piccola festa aziendale, i nuovi vertici informano i dipendenti sul rinnovato assetto societario, rassicurandoli che questa ristrutturazione non comporterà mutamenti per i loro posti di lavoro. Anna, e i colleghi festeggiano brindando, mangiando e ballando. Il clima sembra rilassato anche se si percepisce nell’aria una nota d’insicurezza.
Il nuovo assetto societario porterà, di lì a poco, inattesi cambiamenti nella sua vita lavorativa e di conseguenza anche in quella familiare. Anna viene rimossa dal suo ruolo. Di lì comincia la sua tragica discesa in una serie di mansioni assurde e sempre più umilianti nel tentativo di farla dimettere. Viene abbandonata dalla falsa amicizia delle colleghe e dei colleghi, che sembrano evitarla e comportarsi come un branco che abbandona l’animale malato. …
Non amo particolarmente Nicoletta Braschi e trovo che sia un’attrice sopravvalutata. Qui però è convincente e brava in un ruolo che sembra calzarle a pennello e calata in un ambiente ostile con cui spesso gli impiegati si trovano a fare i conti.
Siccome mi sembra che ci siamo depressi più che a sufficienza con gli esempi di cui sopra, cambiamo decisamente registro con questa commedia brillante del 1957 interpretata dall’inossidabile coppia Katharine Hepburn e Spencer Tracy. Il film è arguto e frizzante, e propone lo spaccato sociale di un ambiente lavorativo di alto livello degli anni cinquanta. Ho scoperto che il soggetto è tratto dal lavoro teatrale The Desk Set di William Marchant.
Bunny Watson (Katherine Hepburn), capoufficio del reparto quesiti di una grossa azienda, è una donna molto intelligente, emancipata e battagliera ma il suo posto sta per essere insidiato da una nuova macchina elettronica EMERAC che probabilmente si occuperà di risolvere più velocemente il lavoro di lei e delle sue colleghe, con le quali ha un ottimo rapporto di amicizia.
Bristow
Il fumetto segue la vita quotidiana di un impiegato della Chester-Perry Co.Ltd, rappresentata da un immenso, monolitico edificio. Bristow ama fantasticare ed ha manie di grandezza in cui si vede come un neurochirurgo e uno scrittore. Il suo tomo epico, Living Death in the Buying Department (Morte Vivente nell’Ufficio Acquisti), deve ancora trovare un editore, ma ciò non lo scoraggia… questa situazione vi ricorda qualcosa? 😉 Vive in una piccola camera a East Winchley e fa il pendolare in treno, arrivando invariabilmente in ritardo. Molto spesso subisce le angherie del suo prepotente capo Fudge. Ha una cotta per una abituale visitatrice, Miss Pretty della Kleenaphone, la ditta di manutenzione dei telefoni. Un altro visitatore regolare è il piccione che si ferma sul davanzale della finestra: durante l’inverno, l’uccello migra verso climi più caldi, dove visita la controparte di Bristow: un nero in abito bianco.
Dilbert
Chiudiamo con l’adorabile impiegato americano Dilbert, protagonista di una striscia a fumetti comica giornaliera creata da Scott Adams. Personalmente lo avevo incontrato quando era iniziata la consuetudine di distribuire i giornalini gratuiti in metropolitana. Una delle pagine di Metro era riservata ai cruciverba, ai giochi di parole e all’intrattenimento e c’era spesso la striscia di Dilbert alternata con altre come Calvin&Hobbes, di cui ho parlato nel post dedicato alla tigre.
Si tratta di un personaggio che l’autore aveva abbozzato anni durante le sue noiosissime riunioni di lavoro. Durante le mie ricerche per la creazione del post, sollecitata da un commento di Tom del blog The Obsidian Mirror, ho scoperto che Scott Adams ha lavorato nove anni per l’azienda telefonica americana Pacific Bell, e aveva deciso di sfruttare quest’esperienza per descrivere l’ambiente lavorativo paradossale eppure autentico in cui il suo personaggio si muove. Addirittura ha scritto anche un libro, intitolato Il principio di Dilbert!
Il Dilbert dei fumetti indossa pantaloni neri, camicia bianca ed una cravatta a righe sempre storta. Porta occhiali che nascondono il suo sguardo. Lavora in un cubicle come quelli del quadro di George Tooker, a una scrivania circondata da quattro pareti ad altezza busto che contraddistingue gli uffici statunitensi e anglosassoni (ne sono testimone!). Vive in compagnia del suo cane Dogbert con cui ama chiacchierare.
Sul luogo di lavoro Dilbert è un ingegnere elettronico frustrato, nel senso che, a differenza di Bristow, è sempre puntuale e presente in ufficio ed è sempre onestamente intenzionato a svolgere al meglio il proprio lavoro. Tuttavia molti fattori gli remano contro, a cominciare dagli ingranaggi del “marketing” e della “leadership” per passare ai colleghi ottusi. Ogni buona idea viene soppressa e ogni merito non riconosciuto.
Molti di noi possono facilmente riconoscersi in questo personaggio e soprattutto nelle dinamiche aziendali di cui siamo vittime. Per cui… ecco il link al sito ufficiale di Dilbert. Buon divertimento!
Spero che il post vi sia piaciuto e che mi racconterete in quale di queste esperienze vi riconoscete maggiormente. Io ero una specie di Dilbert editoriale con qualche sfumatura alla Bristow nei sogni a occhi aperti!
Bartebly lo scrivano di Herman Melville – Traduzione e cura di Gianni Celati – Economica Feltrinelli
La morte in banca di Giuseppe Pontiggia – Oscar Mondadori
Wikipedia per le trame dei libri e dei film, fortemente adattate e integrate
Adoro "La segretaria quasi privata" (e in generale quel genere di film)! E bella l'idea di questa nuova serie tematica.
In quei film i dialoghi sarebbero da studiare anche per applicarli alla scrittura: un fuoco di fila di battute! E poi mai volgari, anche quando vanno a doppio senso.
A questa serie tematica appartengono già il post sull'amicizia, sulla paternità e sull'avaro. Trovi il raggruppamento nel famoso menu a tendina sulla scrittura! 😉
Quello dell'impiegato e della sua vita anonima e un po' assurda è un tema che è stato caro a molti, e il primo a venirmi in mente è Kafka. Senza dimenticare la figura di Fantozzi che, al di là dei gusti di ciascuno, rappresenta uno spaccato e una lettura critica di quegli anni.
Infine, visto che oggi ne parliamo entrambi, penso a Pontiggia e al suo coraggio: lasciare un posto in banca per inventarsi scrittore. E penso che oggi non lo fanno finalisti allo Strega (penso a Zardi) né scrittori dal successo planetario (penso a Eco): mi domando cosa sia necessario fare, nel XXI secolo, per campare di scrittura…
Insieme a a Gregor Samsa mi era venuto in mente anche "Morte di un commesso viaggiatore" di Arthur Miller, nel settore del teatro però. Io ricordo con particolare affetto l'antesignano di Fantozzi, ovvero Fracchia, con la sua poltrona a sacca da cui finiva per essere travolto sotto gli occhi del capo, uno straordinario Gianni Agus. Quest'ultimo aveva la piccola ghigliottina sulla scrivania, quindi doppiamente temibile, e una voce molto acuta da trapanamento di timpani. Forse lo ricordo così perché ero piccola quando guardavo la tv all'epoca, e si diventa un po' nostalgici con l'età.
Giuseppe Pontiggia è stato coraggioso e anche fortunato. Chissà quanti aspiranti "scrittori totali" hanno lasciato il posto sicuro, e vai a sapere come sono finiti.
Non ho nessuna esperienza nel settore, ma trovo inarrivabili le numerosissime pagine in cui Henry Miller descrive la sua esperienza di impiegato alla Western Union, da lui ribattezzata Cosmodemonic Telegraph Company.
Mmm… ! Cosmodemonic mi fa venire un mente un mio collega, lui sosteneva che le multinazionali sono opera del diavolo!
Su questo non ci piove… 😉
😀
Per grazia di Dio, oppure chissà, magari mi sono perso qualcosa :D, non ho mai svolto lavori da impiegato. Devo dire che tra tutte le attività molto dinamiche mi è capitato, soprattutto in gioventù, di "eseguire" lavori altrettanto demotivanti e frustranti. Inquietante il quadro a inizio post.
Hai caratterizzato la figura dell'impiegato molto bene, identificando attraverso le varie arti le possibili sfaccettature. Conoscevo, senza averlo letto, le vicende di Bartebly lo scrivano per una riduzione teatrale offerta dal Teatro stabile di Genova e per qualche articolo allorché di questo testo se ne occupò Daniel Pennac. Ho visto con gusto e ricordo bene il film con Tracy e la Hepburn, conoscevo Bristow per le sue apparizioni su Linus e Eureka, degli altri esempi che hai citato non ho memoria. Mi sono proprio gustato il post. Mi vengono in mente numerosissimi esempi dove la figura dell'impiegato è utilizzata come esempio del massimo grigiore della vita o come custode del potere che si perpetua fine a se stesso. Un esempio esilarante a tal proposito ce lo hanno regalato Goscinny e Uderzo nelle dodici fatiche di Asterix, ricordate la "casa che rende folli"? Sembra rubata da un racconto di Borges. Oppure la caratterizzazione degli impiegati nel celebre Mary Poppins? Per il resto da Kafka a Dostoevskij, a Gogol, e altri, è un tema affrontato. E il memorabile "Un borghese piccolo piccolo"? Si è sempre scorta una sorta di attinenza alla metafisica nella figura dell'impiegato.
Bel post e ottimo spunto per delineare la psicologia umana.
Per rispondere alla tua domanda, devo dire che l'aumento della burocrazia nel mio lavoro, dove oramai bisogna compilare moduli per QUALUNQUE cosa, mi evoca tutto ciò che di frustrante e opprimente c'è nelle descrizioni che ci hai offerto.
Brava Cristina.
Caro Max, grazie per il tuo commento così articolato, è davvero quasi un post a parte! Bisognerebbe che tu scrivessi un post tematico sulle figure in letteratura e nei film che operano negli ospedali, sono sicura che te ne verrebbero in mente a bizzeffe.
Non ho memoria della "casa che rende folli" in quell'album di Asterix, e sì che ce li ho tutti! Invece mi ricordo benissimo in Asterix il legionario l'episodio di quando Asterix e Obelix, arruolatisi, vogliono rintracciare il loro amico Tragicomix nell'esercito romano. Asterix passa da un ufficio all'altro e da uno sportello all'altro, fino a essere rimandato all'inizio, al che perde la pazienza e si mette a prendere a sberle il malcapitato di turno. Come a dire che la burocrazia imperava… anche nell'impero romano!
Per i film mi era venuto in mente anche quello francese Sulle mie labbra dove un'impiegata riusciva a leggere il labiale, ma gli esempi sono moltissimi. Anch'io ho visto il film con Sordi che citi, mentre non ho mai visto Le miserie di Monsieur Travet che ha dato addirittura il nome al prototipo dell'impiegato mezze maniche.
Intanto grazie per i complimenti e per la pazienza, sono prolisso eh? Per il resto hai ragione la casa che rende folli è un episodio delle 12 fatiche di Asterix, per una volta fumetto ispirato a un film invece che il contrario. In merito a "Un borghese piccolo piccolo" fantastico Sordi nella riduzione cinematografica del romanzo di Cerami.
No, no! Lungi da me volerti muto come un pesce! 😀 Un blog è un luogo di scambio e chiacchiere, altrimenti uno aprirebbe un sito di genere statico. Devo proprio riprendere quell'album di Asterix, così mi faccio quattro risate. Buona domenica! ^_^
Da impiegata di lungo corso, per fortuna mai di sportello, confermo certe dinamiche frustranti assai. Il tuo post come sempre è molto ben congegnato e analizza con precisione il settore, che appunto conosco fino troppo bene. Tanto che come noto ho messo in atto una parziale via di fuga di recente.
Tra i film vorrei proporre di sicuro: Dalle 9 alle 5 orario continuato- una vera chicca con un trio eccezionali di attrici/impiegate unite nella perenne lotta contro il capo. Stupendo.
Essere impiegati allo sportello dev'essere quanto di più snervante possa esistere, poiché molto spesso vieni investito di insulti anche se non hai nessuna colpa. Poi vedere delle code chilometriche mi metterebbe in un'agitazione terribile, anche se probabilmente anche lì è tutta questione di farci il callo. A questo proposito ricordo però una cosa carina presso la mia banca: c'era sempre una fila chilometrica a uno sportello, prevalentemente composta di anziani. Tutti si mettevano in coda dall'impiegato specifico, perché era molto gentile e aveva molta pazienza soprattutto con gli anziani! Un piccolo miracolo.
Più terribile ancora dev'essere lavorare al Recupero Crediti aziendale, però.
Brava che ti sei aperta una parziale via di fuga, anche se non sono più dipendente sto pianificando qualcosa di simile…
Divertentissimo il film che proponi, lo avevo visto anch'io a suo tempo. Grande vendetta al femminile! Mi viene in mente anche Una donna in carriera con la figura della segretaria e della capa odiosa. Anche Il diavolo veste Prada con la Streep superlativa come sempre.
Cristina, che bellissimo post.
Quell'opera pittorica iniziale che ti ipnotizza… anche tutto il resto è estremamente interessante.
Ho un superbo esempio di letteratura che riguardi questo ambiente, ed è "Il cappotto" di Gogol. Ne vidi una trasposizione teatrale, straordinariamente bella.
Come dimenticare poi il povero impiegato sottoposto alle angherie di Scroodge nel "Canto di Natale" di Dickens?
Queste opere e quelle che citi, ci mostrano un mondo spesso ritenuto "parallelo" e anche misconosciuto, spesso criticato. Oggi risucchiato in quella bestia nera che è la burocrazia, una peste tipica italiana.
Grazie mille, Luz. L'opera pittorica che ho inserito mi era rimasta impressa per via di una letteratura inglese dove l'avevamo utilizzata nella sezione di collegamento con l'arte. Sono andata quindi a rintracciarla.
Vero, vero, il povero piccolo contabile dalla numerosa famiglia e che veniva sottoposto alle angherie del vecchio avaro! In effetti le opere di Dickens sono molto ricche di impiegati e contabili, copisti e scrivani curvi sulle loro scrivanie.
Per quanto riguarda gli impiegati statali, ho un'amica che lavora per lo Stato e mi raccomanda di non credere alle dicerie che sono tutti fannulloni. C'è anche gente che lavora sodo e onestamente, ma purtroppo sui giornali arrivano soltanto i casi peggiori.
Già sono molto sfiduciata nei confronti del mondo del lavoro, devo ammettere che il tuo post non mi ha molto tirata su di morale…
Comunque, è molto interessante la tua indagine sulla figura dell'impiegato nelle opere letterarie.
Per i giovani la situazione non è delle più rosee, in effetti… e spesso penso anche a mio figlio che è di poco più giovane di te. Comunque mai disperare!
Conosco le strip di Bristow e Dilbert, e a breve leggerò "Bartleby" (pura combinazione: per partecipare a una lettura on line basata su "Billy Budd" ho rimediato un testo che, oltre al racconto in questione, include anche altri due raconti di Melville: il poco noto "Chicchirichì!" e appunto "Bartleby").
Io sono un impiegato, quindi conosco bene il contesto. Ho lavorato in più ditte sperimentando sia lo sfruttamento e la prevaricazione più odiose in una, sia un rapporto estremamente umano in quella dove sto ora. In effetti credo che, come sempre, non è la mansione in se stessa a determinare la soddisfazione ma il contesto in cui si lavora e le persone con le quali lo condividi.
Questo è vero Ariano. Infatti nel commento sopra ho ricordato di tempi giovanili dove svolgevo attività molto dinamiche ma ugualmente alienanti per il contesto. Vero, vero.
Ariano, sono molto contenta che tu ti trovi bene dove sei ora. Nei miei ultimi posti di lavoro devo dire di essere passata dall'inferno al paradiso almeno un paio di volte, senza transitare dal purgatorio. L'ultimo caso è stato passare da una casa editrice francese a una casa editrice inglese: nella prima ti trattavano a pesci in faccia e col massimo disprezzo, e c'era grande formalità nei rapporti interpersonali; nella seconda tutto il contrario, ti ringraziavano con molta cordialità per ogni minima cosa, e davi del 'tu' all'amministratore delegato!
In linea di massima, ma molto di massima, mi sono trovata meglio a lavorare per piccole realtà che non per grandi aziende.
Bristow è il mio mito e mi piaceva da impazzire il genere cinematografico cui fa riferimento La segretaria quasi privata! Ma questo nuovo filone è davvero succulento!!! 🙂
Bristow è davvero adorabile, io l'ho scoperto soltanto ora ma ho deciso di adottarlo come mascotte. Come rispondevo a Tenar all'inizio, in realtà questo sarebbe il quarto post di una serie che ho un po' trascurato in favore dei "vasi comunicanti" e del "mondo degli animali". Da molto tempo avevo in mente di realizzare questo articolo sugli impiegati.
Avevi visto il film La costola di Adamo sempre con Katherine Hepburn e Spencer Tracy? 🙂
Visto, eccome! Credo di aver visto tutti i film della impareggiabile coppia Hepburn-Tracy e La costola di Adamo non poteva certo mancare, anche perché il film, in fondo, pur essendo una commedia, era anche un manifesto della difesa dei diritti delle donne in un periodo cruciale dal punto di vista della trasformazione dei costumi della società. E i dialoghi? Dai, erano semplicemente meravigliosi, specie quando marito e moglie si pungevano l’un l’altra: uno spasso, condito con un’intelligenza sottilissima. Ecco, devo dire che per quanto riguarda i dialoghi, secondo me il cinema americano degli anni ‘50 ha dato il meglio. Pensa non solo a Cukor, ma anche ai film di Hitchcock, di Orson Wells, di Billy Wilder o di Vincent Minnelli, solo per fare qualche nome…
Anch'io li ho visti tutti e sono tra i miei film preferiti. Mi piace anche Katherine Hepburn in Susanna! con Cary Grant nei panni di un timido professore di paleontologia, dove lei è completamente svitata e gliene combina di ogni. In questi film i dialoghi sono da manuale, con doppi sensi mai volgari e situazioni esilaranti. Sarà che, appunto, li vedevo quando ero ragazzina, e sono conditi con un pizzico di nostalgia…
Bella questa serie tematica è bello questo post, apprezzo molto anche il quadro che hai scelto è azzeccatissimo con l'immagine classica dell'impiegato alienato. Io rientro nella categoria visto che mi occupo di amministrazione, ma sul lavoro aimè non conosco la noia solo stress, ma si sa che la figura dell'impiegato nel tempo si è evoluta (se si può parlare di evoluzione). Adesso ho capito da dove deriva la figura dell'impiegato nullafacente è Bartkeby lo scrivano! Sarei curiosa di leggere La morte in banca di Pontigghia, credo comunque che anche il lavoro in banca si sia trasformato e complicato; di Pontigghia ho letto La grande sera in cui si parla di un uomo che scompare (sembra una fuga volontaria) da una vita troppo incasellata da troppi vincoli lavorativi e familiari…
Riguardo al film citato il mobbing è purtroppo una realtà terribile, una mia amica ne è stata vittima finché si è licenziata e per fortuna dopo ha trovato un nuovo lavoro e qualche tempo fa a un'altra mia amica le hanno cambiato di punto in bianco le mansioni (senza un motivo) e ha rischiato l'esaurimento nervoso, il mondo del lavoro è una giungla ormai, per cui è meglio farsi quattro risate con Bristow, è fantastico! Hai ragione noi possiamo capirlo 🙂
Mi ero dimenticata di scrivere che purtroppo mi riconosco abbastanza in Dilbert 🙁
Ciao Giulia, grazie mille del bellissimo commento. Sapevo di aver toccato una tematica cui molti di noi sono sensibili! Purtroppo non c'è solo il mobbing, ma anche le "lotte tra poveri" in seguito alle cosiddette fusioni. Anche quello l'ho sperimentato sulla mia pelle per due volte: la prima volta nella casa editrice francese di cui parlavo e poi in quella inglese.
Per rimanere sul faceto, mi vengono in mente le crudeli gag di Luca e Paolo nella sitcom Camera Café davanti alla macchinetta del caffè. Un'idea geniale! Anche lì ognuno interpreta un ruolo ben definito e anche lì a un certo punto si parlava di fusione aziendale.
Dilbert di tutto il mondo, uniamoci! 😉
Ottimo libro "Bartebly lo scrivano". Mi viene in mente anche "Il sosia" di Dostoevskij con i suoi impiegatucci.
Ma manca "lui": Fantozzi! I primi due film con la regia di Luciano Salce erano buoni, poi tutto è precipitato nella farsaccia più squallida.
Ho visto pochi film di Fantozzi, proprio per il problema cui accennavi. Il sosia di Dostoevskij l'avevo letto molto tempo fa, quindi lo ricordo poco. Meriterebbe anche lui una rilettura.
Strepitoso, questo tuo articolo, Cristina. Davvero bello, andare a cercare l'anima dell'impiegato nella letteratura, nella cinematografia…fino ai fumetti. Un'idea intelligente e interessante. Quello dell'impiegato è un personaggio che si presta a mille trame perché altrettante sono le variabili delle situazioni in cui si viene a trovare. Parlo anche per esperienza personale, pur non essendo inquadrata nel classico ruolo di segretaria o simili, condivido un lavoro dipendente con altri colleghi e colleghe e devo dire che spesso l'alienazione di cui vediamo il volto nell'opera di Tooker, ci fagocita. Bello spunto di riflessione, complimenti.
Grazie di cuore del tuo bell'apprezzamento, Lauretta. 🙂 Questo post bolliva in pentola da un bel po', e finalmente è arrivato al giusto punto di cottura. Hai proprio ragione, il mondo lavorativo è talmente vario e indeterminato che si presta a storie molto diverse, dalla vicenda d'amore alla storia gialla ad esempio. Ricordo a questo proposito un giallo di P.D. James Morte sul fiume ambientato in una casa editrice. All'epoca avevo voglia di leggere un giallo dove facevano fuori l'amministratore delegato, ekekek!
Dimenticavo di segnalare un romanzo, che ho cercato tempo fa, ma non era reperibile e che "ci cade a fagiuolo", come si suol dire: Ricordi di un impiegato, di Federigo Tozzi . Per ora è nella lista, prima o poi lo troverò.
Interessantissimo, sono ricordi personali dunque? Tra gli scrittori esperti di mondo impiegatizio, ad ogni modo penso che il più esperto in assoluto fosse Kafka.
Le strips che citi sono favolose XD E i commenti ricchi di spunti ulteriori rispetto al bellissimo articolo, ho annotato varie cosette ^^
Alla carrellata aggiungo il salaryman giapponese, il "colletto bianco", spesso rappresentato – in libri, manga o anime – come personaggio soggetto a pressione lavorativa e sociale tale da condurre a depressione e anche a gesti estremi. Ho letto qualche tempo fa un bellissimo libro che intreccia le vicende di un hikikomori e quelle di un salaryman (in caso, trovi recensione sul blog), ovviamente lo consiglio moltissimo: Il signor Cravatta di Milena Michiko Flašar.
Ciao e buona domenica ^^
Bristow e Dilbert per fortuna ci tirano su il morale! 🙂 Andrò a cercare sicuramente sul tuo blog la recensione al libro. Il tuo commento mi ha fatto venire in mente una curiosità cinematografica e di costume sul mondo impiegatizio giapponese in contrapposizione a quello americano, colta durante una conferenza a un convegno di lingue anni fa. Il docente sottolineava la differenza che esiste nella disposizione degli uffici: mentre per il manager americano avere l'ufficio con la grande finestra è segno di prestigio, per il manager giapponese equivale invece a una punizione, specie se si parla di open space. Il concetto era che più la tua scrivania è posizionata vicino al capo, più il suo prestigio si riflette su di te.
Buona domenica anche a te! ^_^
Riporto anche qui il commento che ti appena ho lasciato sul tuo blog:
"Cara Glò, questa recensione mi ha commosso, e ti ringrazio di cuore per avermi fatto scoprire questa meraviglia. Ho sento sentito come profonda e vera l'idea del "filo del destino" e dell'anima gemella, che non è una romanticheria mielosa, ma piuttosto un'unione profonda con una persona che ti completa, chiunque essa sia. Della tecnica del Kintsugi avevo già sentito parlare…
Che dire del romanzo a questo punto? Lo voglio, lo voglio, lo voglio! ^_^"
Molto bello questo post, Cristina.
A me viene in mente un libro che ho letto tempo fa, "La tregua" del sudamericano Mario Benedetti, dove il protagonista è proprio il classico impiegato di commercio schiacciato dalla noia e la routine.
E mi viene in mente anche la vecchia concezione del "posticino", quando all'indomani della laurea si andava alla ricerca di un lavoro sicuro. Io ho lavorato come libera professionista e anche dentro una società in cui venivo scambiata dai clienti per la segretaria dei miei colleghi. Non era per me frustrante il lavoro, anzi, mi piaceva, ma quel "buongiorno signorina, mi può passare l'ingegnere" mi risultava sempre indigesto. E poi, pensa, te ne racconto un'altra: una volta, il mio collega, vedendomi avvilita per questo e capendomi alla perfezione, ha riferito a uno di questi clienti che io, in realtà, ero un avvocato, allora, sto tizio è venuto da me e, nel salutarmi, mi ha detto: ah, ma allora lei è avvocato, e perché fa questo lavoro da segretaria?" Da spararsi! 😀
Ah, ma allora quei clienti erano proprio "de coccio" come si dice a Roma! 😀 Comunque è un classico, ricordo che anni fa avevo conosciuto una donna ingegnere che veniva invariabilmente scambiata per la segretaria nel suo stesso studio.
La povera segretaria è una delle figure più bistrattate del settore. Nessuno pensa che è un lavoro importantissimo che richiede doti organizzative, di dirigenza se la segretaria è di alto livello e coordina le segretarie junior, savoir faire e conoscenze culturali se deve relazionarsi con stranieri. A me è un lavoro che ha insegnato molto e che ho sfruttato in vari ambiti quando sono entrata in redazione se non altro per il senso di ordine che ti impone. Avevo un capo italiano, comunque, che non voleva insegnare niente a livello editoriale a me e alla mia collega, sostenendo che tanto eravamo soltanto due "povere segretarie". Simpatico, eh?
Il mio non era un lavoro di segreteria, curavo il monitoraggio delle pratiche per ottenere i finanziamenti europei previsti per le imprese, questo mi faceva ancora più rabbia: eravamo in tre a farlo, ma gli altri due colleghi uomini erano l'ing. e il dott., io restavo la signorina. Grrrr, se ci penso!
Sono sicuramente situazioni che fanno venire i nervi! Non tocchiamo poi il tasto dolentissimo della differenza tra gli stipendi degli uomini e quelli delle donne a pari mansioni perché ci sarebbe da scriverci post per tutta la vita…
Ho speso un sacco di tempo sulle strisce di Dilbert e sui libri di Scott Adams che ti avevo citato in quell'altro commento. Forse per via del fatto che per anni sono stato un tecnico proprio come il protagonista di quelle strisce mi è stato facile immedesimarmi nelle sue battute sagaci, decisamente lo specchio di una realtà tanto agghiacciante quanto autentica. Oggi, che sono stato assorbito dal marketing (praticamente dalla parte del nemico, secondo il punto di vista di Dilbert), ancora non riesco ad essere cinico come dovrebbe esserlo un uomo di marketing, se necessario pronto a spacciare roba riciclata come se fosse una novità assoluta, o pronto a vendere prodotti difettosi avendo le spalle coperte da colleghi materasso.
Sulla questione cinema associo il discorso lavorativo alle immagini degli impiegati alienati de "Il processo" di Orson Welles, tratto dall'omonimo romanzo di Kafka. Surreali file di scrivanie, estese in lungo e in largo a perdita d'occhio, come evidentemente era lo stile dei vecchi regimi dell'est. Sintomatico un vecchio cortometraggio animato russo anni Settanta di cui parlai sul blog molto tempo fa e che trovi qui.
Sempre in tema di Unione Sovietica, e visto che nei commenti qui sopra avete citato Fantozzi, come non ricordare "Il cappotto" di Nikolaj Gogol che ne fu ispiratore ?
Ciao, Tom, grazie del commento che contiene numerosi spunti. Ti rispondo solo ora perché preferivo vedere il video con il cortometraggio russo anni Settanta. Ti ho lasciato un commento proprio ora sul tuo blog. In effetti il cortometraggio è inquietante, pur se la cupezza della storia è un po' stemperata dalle tinte acquarellate e dalle linee sghembe… e naturalmente dai sogni del personaggio.
Meno male che le strisce di Dilbert ti hanno fatto compagnia, in effetti tutte queste vicende che paiono surreali non lo sono poi troppo. Anzi, spesso la realtà supera la fantasia come si dice! Si diventa come rotelline di un ingranaggio di cui sfugge il senso. Non ho mai letto Il cappotto di Gogol che è stato nominato anche da Luz. A presto!
Inquietante ma anche di una tristezza infinita… no?
Sicuramente! Una vita da prigioniero…
Da ex operaio debbo dire di aver sempre mantenuto un rapporto controverso con gli impiegati, sarà che dove lavoravo io vedevamo gli impiegati passare le loro otto ore a girare tra le varie macchinette del caffè dell'azienda mentre noi non avevamo quasi il tempo di respirare….
Ma dove lavoravo io sono convinto che fosse l'eccezione alla regola, sono sicuro che nella maggior parte dei luoghi di lavoro sia diverso, quindi massimo rispetto per la categoria.
In ogni caso Bristow e Dilbert fro ever!
..for ever!
Nell'ultima casa editrice dove ho lavorato c'era una specie di sorda ostilità a distanza tra noi impiegati (a Milano) e gli addetti al magazzino (a Pioltello). Siccome però io ho sposato il direttore del magazzino, facevo spesso da trait d'union. 😉
Come dicevo più sopra, ho un'amica che lavora nel pubblico impiego… pensa che molto spesso lavora anche il sabato mattino! Quindi anche la cattiva fama del dipendente pubblico a volte è immeritata.
Bristow e Dilbert forever, anzi… for presidents!
Dimenticavo, Nick: la settimana scorsa ho iniziato la perlustrazione del tuo blog iniziando con SUSAN WALSH E I VAMPIRI DI NEW YORK. dato che i misteri mi acchiappano assai.
Articolo interessantissimo – per un'impiegata, poi, figuriamoci!
Ammetto di aver sempre avuto un po' di curiosità verso "Bartleby lo scrivano" ma la sola idea della sua storia mi deprime un po'. I film e i fumetti invece non li conoscevo ma mi ha fatto piacere trovare anche qualcosa che si discostasse un po' dalla solita idea di noia che si associa al lavoro in ufficio 🙂
Bel post, complimenti!
In effetti Bartleby non è proprio quello che si dice un allegrone. 😉 Però non ho trovato angosciante la storia, più che altro strana.
I fumetti sono favolosi e simpaticissimi, quando leggevo Dilbert in metropolitana mi spanciavo dal ridere! Grazie per i complimenti e a presto. ^_^
Essendo un docente libero professionista, non mi riconosco proprio in nessuna di queste. Tutt'un altro mondo (problematiche comprese).
Strano però non aver almeno citato Fantozzi, libro e film.
Nel film con la Braschi (io non l'ho visto, se non alcune sequenze), ricordo che la protagonista subisce ben due tipi diversi di mobbing, ovvero il mobbing strategico e il mobbing orizzontale.
Ciao, Marco, grazie del commento. Personalmente non ho citato Fantozzi perché ne ho visto soltanto uno e non è propriamente nelle mie corde. Per fortuna Fantozzi è stato citato da altri commentatori. 🙂
Per quanto riguarda i due tipi di mobbing del film con Braschi, quello strategico deriva forse dalla direzione e quello orizzontale dai colleghi?
Sì, esattamente.
Grazie mille, Marco!