C’è vento quassù. Mi piace sentirlo addosso, immaginarmi in volo, mentre fermo sulla pellicola le immagini che scorrono veloci sotto di me.
Ho voluto tornare qui, dove è stato realizzato il mio ritratto più iconico: moderna amazzone su uno dei giganteschi gargoyles del Chrysler Building, tra le mani il mio terzo occhio, quello con cui fermavo il tempo e lo raccontavo agli altri.
Mi siedo stanca su un gradino e snocciolo un rosario ateo di date e ricordi, per me stessa e per il cielo che mi ha accolta tante volte, come una sorella.
1936, la diga come un condottiero, sulla prima copertina di LIFE.
1937, parole di Erskine e i miei scatti a raccontare lo stridore delle ingiustizie della Grande Depressione.
1941, il volto bonario di Stalin, e subito dopo le truppe naziste che invadono Mosca.
1942 una notte e un giorno su una scialuppa, la nave silurata, la vita barattata con le mie foto in fondo all’oceano.
1945, pile di corpi nudi senza vita, pelle tatuata per i paralumi, scheletri viventi con occhi già morti. Buchenwald.
1946, un piccolo uomo con l’arcolaio, poche ore prima di essere assassinato.
1954, sudore nero senza speranza, sepolti nelle miniere.
1957, la diagnosi. Io che ho sempre vissuto tutto senza tentennamenti, divento foglia di Ginkgo Biloba sbattuta dal vento.
E ripenso alla prima volta qui, tra le impalcature.
Cosa immaginavi, ragazzina?
Ti sorrido.
Le foto che non abbiamo scattato si rincorrono nel vento.
È ora di andare.
Susanna Albertini
– Racconto dedicato a Margaret Bourke-White –