«La prossima sarà tua sorella», mi sibilò all’orecchio. Odore di spezie sconosciute, sudore e ferocia.
Tenevo gli occhi serrati, per non incontrare lo sguardo implorante di quella ragazzina oltraggiata.
L’avevo incontrata giorni prima al lavatoio del paesino di Pofi, un vento dispettoso le aveva rubato una lettera dalle mani; nel rincorrerla mi era passata di fianco, lasciando un profumo di sapone di Marsiglia e leggerezza. L’avevo seguita con lo sguardo, lasciando riposare i pensieri su quel sorriso nascosto da dita quasi infantili.
Erano sbucati dalla notte, svegliandoci a calci. Ci avevano radunati nel cortile del casolare dove eravamo sfollati, sparavano vicino ai nostri piedi, sempre più vicino. Le madri cercavano di far tacere i più piccoli, nascondendoli dietro corpi smagriti dalla guerra.
L’avevano strappata via dalle altre donne, gettata su un materasso lurido, costringendoci ad assistere.
Affondavo le unghie nella terra, per imbrigliare la rabbia che, se mi fosse sfuggita, avrebbe trascinato nella morte anche mio fratello. La spada dell’uomo era fredda sul mio collo, la notte infinita.
Mia sorella non l’avrebbero trovata, l’avevo nascosta bene.
Dopo, si ritirarono. Lasciando dietro di sé la nostra impotenza e il loro disprezzo.
«Torneremo domani», promisero.
Avrebbero dovuto liberarci dai tedeschi di Hitler, invece ci stavano marchiando come bestie, contaminandoci con la loro violenza. Li chiamavano Goumier, erano i Marocchini del Corpo di Spedizione Francese agli ordini del Generale Alphonse Juin, da lui autorizzati a razziare il bottino di guerra nella Ciociaria stremata da quattro anni di guerra. Migliaia di diavoli bramosi di sangue, che sfogavano la loro brutalità sulla popolazione inerme.
Il fiume Sacco scorreva indifferente davanti a me, come lo erano stati i militari francesi che avevamo implorato di intervenire, dopo aver denunciato le violenze appena commesse. «C’est la guerre», ci avevano gettato addosso, assieme a un pacco di sigarette a metà e un tozzo di pane duro. L’avevamo raccolto dalla polvere e divorato famelici, dimentichi. Anche la ragazza violata ne sbocconcellava un pezzetto, seduta un po’ distante da tutti, sulla sua gonna stracciata, sporca di sangue e di colpe non sue.
Avrei voluto parlarle, ma le parole si seccavano sulla lingua per la vergogna di aver visto.
La sua solitudine rassegnata mi colpì come una frustata. Mi alzai di scatto e mi misi a correre su per la collina, verso Pofi, il paese dove si trovava il comando della Polizia Militare Canadese. I rovi mi frustavano le gambe mentre correvo contro il tempo nell’oscurità: il dolore mi spronava, le parole terribili di quegli uomini risuonavano ancora nella testa: «Torneremo domani».
Mi era parso di vivere in un lungo sogno, da quando avevo visto l’abbazia di Montecassino crollare sotto le bombe degli americani tre mesi prima, mangiandosi le oltre cinquecento persone che si erano rifugiate in cerca di protezione tra le sue sacre mura.
Avevamo vagato per le campagne, senza sapere chi fossero gli amici o i nemici, nascondendoci da tutti.
Condiviso minestre di erbe selvatiche e rassegnazione con vecchi che non avevano più storie da raccontare.
Dormito addossati a sconosciuti in cascinali abbandonati, condividendo l’aria, senza mai guardarci negli occhi.
Visto bambini giocare accanto alle croci di legno che segnavano le tombe dei loro genitori, uccisi in fretta, senza ragione.
E ci eravamo abituati all’orrore, diventandone complici.
La cittadina di Pofi dormiva ignara. Mi arrampicai lungo le strade antiche che erano state parzialmente risparmiate dalle bombe. Mentre la notte si ritirava sfibrata ed esausta, i colpi di battacchio contro il portone del municipio risuonarono cupi nella piazza. Decine di rondini volavano attorno al campanile, giocando con i primi bagliori del giorno, ingannandomi con un’illusione bugiarda di normalità. Rimasi a guardarle, un po’ stupito e offeso della loro allegria incurante, mentre il nostro mondo era andato in pezzi.
Un giovane militare, che doveva essersi vestito in fretta e furia per aprirmi, mi fece strada all’interno dell’edificio. Persone che non riuscivo a riconoscere mi guardavano severe dagli antichi dipinti che decoravano le pareti del corridoio.
Giunsi davanti a un uomo imponente in divisa, i capelli tagliati come un attore del cinematografo.
Abbassai lo sguardo: ero solo un ragazzino di sedici anni, vestito di stracci e determinazione. Si presentò come Anthony Scotti, capitano della Military Police Canadese, mi sorrise e parlò in italiano, i suoi genitori erano emigrati anni prima da un paesino simile a questo. Forse avevamo qualcosa in comune, oltre al nome Antonio.
Il capitano ascoltò in silenzio le parole che mi uscivano dalla bocca a piccoli scoppi, riempiendo la stanza di ombre. Poi si diresse alla finestra e guardò verso la valle. Le colline si rincorrevano in mille tonalità di verde, una leggera foschia le separava dalle montagne ancora in mano ai tedeschi, laggiù in fondo, oltre la linea Gustav.
Le rondini garrivano la gioia della primavera e io mi sentivo cent’anni addosso.
Si girò e abbassò la testa, in cenno di assenso.
Il sollievo mi riempì gli occhi di lacrime.
Poche ore dopo li attendevamo sulla sponda del fiume Sacco, dove sapevo avrebbero attraversato.
Arrivarono.
Erano migliaia, ululavano come spettri, vestiti con lunghi barracani e turbanti.
Un colpo di pistola sovrastò il frastuono. Mi girai verso il capitano Scotti che teneva l’arma puntata al cielo. «Arrêtez-vous!» intimò.
Come in risposta a un segnale i Marocchini si gettarono in acqua, bramosi di conquista. Le lame luccicavano tra gli schizzi d’acqua. Erano sempre più vicini. Le bocche spalancate, gli occhi eccitati.
Era finita.
Poi udii il crepitare delle mitragliatrici canadesi. Il fiume Sacco divenne rosso, le urla si trasformarono in stridii e poi silenzio. I corpi scivolarono nella corrente senza che nessuno si curasse di loro. I diavoli si ritirarono, in cerca di prede più facili al di là del fiume.
Corsi al nascondiglio dove mia sorella e mia mamma attendevano pazze di preoccupazione. Uscirono nel bosco, gli occhi abbagliati dalla luce del sole che filtrava tra le fronde.
Erano bellissime.
Erano salve.
Il paese di Pofi era salvo.
Trovai la ragazza al lavatoio dove l’avevo vista la prima volta, le mani arrossate dal tentativo di lavare l’onta subita.
Mi sedetti un po’ discosto.
«Non torneranno più», le promisi.
Annuì, senza guardarmi.
E poi, nonostante tutto, la primavera riempì il silenzio di vita.
Susanna Albertini

NdA: Le cosiddette “Marocchinate” sono un episodio storico vergognoso e poco conosciuto. Nel Maggio 1944, il Corpo di Spedizione Francese agli ordini del Generale Alphonse Juin, violentò circa 60.000 persone, in maggioranza donne, ma anche bambini e uomini, popolazione inerme in una Ciociaria prostrata dalla guerra. Migliaia di persone vennero torturate e uccise per mano di quelli che avrebbero dovuto liberarli dal nazismo. Il libro di Moravia “La ciociara”, da cui venne tratto il film con Sophia Loren, denunciò questa vergogna, ma credo che pochi ragazzi ma anche adulti di oggi ne siano al corrente.
Questo racconto è dedicato a Antonio Grazio Ferraro e Anthony Scotti, i due protagonisti della storia vera che mi sono presa la libertà di interpretare. Ma soprattutto è dedicato alla ragazza violata, che resta senza nome, come moltissime donne che subirono la crudeltà della guerra.