Ci ritroviamo in compagnia di Clementina per proseguire insieme il percorso alla scoperta delle donne nel Novecento. Per rendere più agevole la lettura, abbiamo suddiviso il post in due parti, e in questo contesto ci si focalizzerà sul periodo della Prima guerra mondiale.

Ciò che leggerete è particolarmente illuminante anche sulla base del tempo storico che stiamo vivendo, e della voglia bellicista di alcuni paesi europei definiti “volenterosi” e dei tagli allo stato sociale che sarebbero conseguenti a una ingente produzione militare. Una situazione da cui trarranno beneficio profittatori e speculatori, e di cui pagheranno le conseguenze le fasce più deboli… come sempre.

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Nel precedente post (che potete trovare qui) sono state affrontate le tematiche del consumo e della cultura di massa nel periodo che va dagli inizi del Novecento fino agli anni ’40, in America e in Francia. Ora, mantenendo la stessa rotta e procedendo quindi nello stesso solco, volgeremo lo sguardo verso il nostro Paese.

Ciò che accade in Italia a quel tempo si differenzia dalle altre due realtà prese finora in esame, sia per il diverso livello di sviluppo economico, che per la presenza del regime autoritario.

Qui accanto, il manifesto per la Giornata della Madre e del Fanciullo, istituita nel 1933 dal regime fascista.

Detto questo, prima di procedere all’esposizione della situazione femminile, vorrei restituire una sintesi del quadro storico dell’Italia di quel periodo.

Cito testualmente lo storico Federico Chabod dal suo L’Italia Contemporanea 1918-1948 (che raccoglie le lezioni tenute da Chabod alla Sorbona), Piccola Biblioteca Einaudi, 1970, pag. 27, per fornire alcuni riferimenti utili alla comprensione della situazione in cui volgeva il Paese:

 “L’alimentazione media di un italiano nel 1914 prevedeva un consumo di calorie giornaliere inferiore di più di un quinto a quella dell’alimentazione di un inglese. Il reddito medio per abitante era (calcolato in unità internazionali, secondo il metodo di Collin Clark), nel 1911-13, di 549 per gli Stati Uniti, 481 per la Gran Bretagna, 351 per la Francia, 301 per la Germania e 158 soltanto per l’Italia. Ciononostante l’Italia consumava più di quanto producesse: fra il 1909 e il 1913 si registra in media un’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni di 1 miliardo e duecentocinquanta milioni. Come poteva colmarlo? Gli emigranti che lasciano l’Italia (in quegli anni si calcolano fino a 873.000 partenze l’anno, e la media del periodo 1909-13 è di 650.000 l’anno) e che inviano alle famiglie rimaste in Italia quel che riescono a risparmiare, rappresentano uno dei mezzi per far fronte al deficit; l’altro è il turismo.”

Già nel 1914 le condizioni economiche del Paese versavano in uno stato di profonda arretratezza, nonostante i notevolissimi progressi compiuti dopo l’unità, e il clima si presentava ostile, con partiti politici, stampa e opinione pubblica divisi tra sostenitori del neutralismo e ferventi interventisti. In quest’ultimo gruppo i dirigenti di alcuni comparti dell’industria pesante, che contavano sui profitti derivanti dall’entrata in guerra, erano senza dubbio i più agguerriti. Qui accanto, il giornale del 1914 “La Difesa delle Lavoratrici”.

Con l’ingresso in guerra nel 1915 la spesa italiana per le forniture militari iniziò a lievitare. Nel 1916 era già raddoppiata e nel 1917 aumentò ancora di un terzo, continuando a crescere. La nazione, per coprire una così ingente massa di equipaggiamenti bellici, si indebitò sia all’interno che all’estero.

Le imprese più forti – come la Montecatini, l’Ansaldo, l’Ilva, la Fiat – che avevano visto crescere produzione e profitti, fanno affari d’oro. Nel commercio, senza dimenticare il mercato nero, nascevano intere fortune da un giorno all’altro. Per taluni, dunque sopraggiunse un arricchimento improvviso, per altri un totale sfacelo economico. Non va dimenticato nemmeno che gran parte della ricchezza venne distrutta nel conflitto, mentre il rimanente fu accaparrato dagli speculatori. Favoritismicorruzioni e sprechi nelle assegnazioni delle commesse statali non si contavano nemmeno. Il peso del conflitto e le conseguenti difficoltà economiche vennero scaricate soprattutto sulle fasce sociali più deboli.

Per meglio comprendere lo scenario nazionale di quell’epoca è importante evidenziare che anche la produzione agricola si rivelava insufficiente, sia a soddisfare i bisogni civili che quelli dell’apparato militare. Un episodio eclatante e consono a spiegare la drammaticità di quei momenti fu quello verificatosi nel 1917, a Torino. Nella città piemontese scoppiò una rivolta popolare, guidata prevalentemente da donne, operaie e contadine costrette a enormi sacrifici per sopravvivere insieme ai figli piccoli e agli anziani – mentre gli uomini adulti erano al fronte – che protestavano per la mancanza del pane.

 Si deve anche tener conto del fatto che l’Italia di quegli anni, a differenza di Francia, Germania, Gran Bretagna, era un paese prevalentemente agricolo, nel quale il 55% della popolazione era dedito all’agricoltura, mentre solo il 28% della popolazione era impiegata nell’industria e solo l’8% lo era nel commercio. 

Tuttavia, non bisogna lasciarsi confondere dalle cifre perché, come riporta L’Italia Contemporanea 1918-1948Piccola Biblioteca Einaudi, 1970, pag. 32, di Federico Chabod:

Solo il 20% del territorio nazionale è pianura fertile […] il 40% è collina e il restante 40 è montagna. Queste percentuali sono già sufficienti a dare una certa idea della povertà agricola dell’Italia.

La scarsità di cereali, indotta dalla mancanza di uomini che lavorassero la terra, dunque si trasformò presto in urgenza.

Ecco un breve passaggio estratto da L’Italia Contemporanea 1918-1948Piccola Biblioteca Einaudi, 1970, pag. 30, di Federico Chabod:

Vi è un significativo rincaro della vita perché l’Italia deve importare dall’estero grano, carbone, petrolio. Manca soprattutto il grano: prima del 1914 l’Italia produceva in media 50 milioni di quintali di grano all’anno (massimo rendimento per ettaro: 12,3 quintali nel 1913), e doveva importarne circa 14 milioni; ma durante la guerra la produzione s’era abbassata fino a un minimo di 38 milioni (minimo per ettaro: 8,4 nel 1920).”

Ebbene, le donne, costrette a uscire alle cinque del mattino per approvvigionarsi del pane – dato che alle otto già non se ne trovava più traccia nei panifici – si ribellarono reclamando per le strade il proprio disappunto e la propria disperazione. Questa rivolta venne letteralmente repressa nel sangue, tant’è vero che le forze dell’ordine lasciarono a terra oltre quaranta morti e più di un centinaio di feriti.

Ho voluto citare la vicenda torinese perché rispecchiava il disastro economico dell’intero paese, le cui economie andavano ulteriormente aggravandosi pervenendo sino alla svalutazione monetaria.

L’Italia, come il resto del vecchio continente, uscì dalla Prima guerra mondiale in uno stato di rovina generale e di rilevante dipendenza economica e finanziaria dagli Stati Uniti d’America. Nel 1918 il tasso di inflazione toccò le punte del 20%, di conseguenza i prezzi salirono alle stelle, i capitali dei piccoli risparmiatori si polverizzarono, la pressione fiscale crebbe in modo vertiginoso, i salari dei lavoratori si presentarono sempre più inadeguati a fronteggiare il carovita. L’indebitamento estero raggiunse una cifra pari a cinque volte il valore delle nostre esportazioni.

D’altronde, la politica del periodo che corre tra il 1914 e il 1919 era del tutto anacronistica.

Nella prossima puntata andremo al cuore della questione: il rapporto delle donne con il fascismo.

Vi aspetto!

 

Clementina Daniela Sanguanini

BIBLIOGRAFIA:

  • Federico Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Piccola Biblioteca Einaudi, 1970
  • Georges Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne, Vol. V, Laterza, Roma, 1992
  • De Grazia V., Le donne nel regime fascista – Venezia, Marsilio, 1993
  • Giancarlo Carcano, Torino 1917, Cronaca di una rivolta, Edizioni del Capricorno, 1977

 

ICONOGRAFIA:

  • Giornata della Madre e del Fanciullo, Wikipedia: nel 1933 viene istituita la Giornata della Madre e del Fanciullo, fissata significativamente al 24 dicembre. La figura della buona madre fascista viene così fissata ideologicamente alla castità della Madonna, e al sacrificio supremo del figlio maschio.
  • 1914 La Difesa delle lavoratrici, Wikipedia
  • Giancarlo Carcano, Torino 1917, Cronaca di una rivolta, Edizioni del Capricorno, 1977